Il Recovery Plan non ferma il consumo di suolo

Antonio Scalari
6 min readApr 30, 2021

Nel 1937, in una lettera ai Governatori degli Stati, il presidente Franklin Roosevelt scriveva che «la nazione che distrugge il suo suolo distrugge se stessa».

Si conoscono diversi fenomeni di degrado del suolo (come l’erosione, la perdita di sostanza organica e la desertificazione), che costituiscono un serio problema e che minacciano l’integrità del suolo come risorsa che svolge molte funzioni ecosistemiche, importanti anche per gli esseri umani. Ma l’evento più distruttivo è la sua impermeabilizzazione. Cioè, la sua copertura con cemento e asfalto. Mentre espressioni come transizione ecologica e rivoluzione green riempiono l’aere, i documenti ufficiali e qualche vacuo slogan, il mondo che ci circonda continua a essere quello che era prima dello spillover di un nuovo coronavirus.

In questo mondo non abbiamo ancora smesso di dilapidare suolo e lo stesso spazio che ci circonda. Nella convinzione che sia infinito. Ignorando che quello che abbiamo consumato dal dopoguerra a oggi, con l’urbanizzazione, l’espansione delle aree residenziali, commerciali, industriali-artigianali, è già tantissimo. La percentuale di suolo consumato, sull’intera superficie nazionale, è circa il 7,6%. Negli anni ’50 era il 2,7%. Un incremento di più del 180%. È un po’ come se avessimo completamente ricoperto una superficie pari, all’incirca, alla Liguria e alle Marche. La velocità di consumo di suolo è oggi di circa 2 metri quadrati al secondo (una parametro medio, “virtuale”, ma che dà un’idea dell’entità del fenomeno). Negli anni 2000, in una fase di grande espansione edilizia, ha toccato gli 8 metri quadrati al secondo. Si consuma meno suolo, ma siamo ancora lontani dal consumo zero, che sarebbe peraltro un obiettivo europeo.

È inevitabile consumare una certa quantità di suolo per soddisfare le esigenze residenziali e infrastrutturali e lo sviluppo delle attività industriali. Ma quello che è successo in Italia, nelle scelte urbanistiche degli ultimi decenni, ha avuto a che vedere più spesso con certe dinamiche economiche e finanziarie, che con quelle esigenze. E molto di frequente con la debolezza della politica.

Non siamo l’ultima generazione che popolerà questo paese. Ne verranno altre, nei secoli a venire. Ciononostante, in un tempo storico brevissimo, abbiamo cancellato suolo e territorio anche per loro. Comunque, abbastanza da doverci ora porre il problema di smetterla. Come per le emissioni di gas serra, causa del riscaldamento globale.

Non ci può essere una transizione ecologica che non preveda di fermare il consumo di suolo. Per questo è cruciale che lo Stato orienti il settore edilizio verso la ristrutturazione e il recupero, anche del patrimonio storico diffuso, l’efficientamento energetico e la messa in sicurezza anche attraverso misure fiscali. Ma non basta. È necessario approvare una legge nazionale sul consumo di suolo che fissi in modo definitivo un limite all’espansione edilizia verso aree agricole e naturali libere. Poi ci sono i progetti di nuove strade o autostrade. Semplicemente incompatibili con quell’obiettivo. Ma che la psichedelica politica locale (non solo: anche associazioni industriali, di categoria, perfino sindacati) considera essenziali e prioritari.

Su questo non c’è nulla nel PNRR appena presentato dal governo. Se non un rapido e vago accenno (limitare il consumo di suolo edificabile). Dal 2016 in commissione al Senato si discute di diverse proposte di legge, dopo l’approvazione di una legge alla Camera. Alla fine di quest’altra legislatura non ne sarà approvata nemmeno una. Una legge nazionale serve per mettere ordine tra diverse leggi regionali, che sono ancora inadeguate e non hanno risolto il problema, e perché è necessario strappare la gestione del suolo alle dinamiche economiche-finanziarie che hanno condizionato il suo utilizzo in senso speculativo per decenni. La crisi ha lasciato in eredità edifici non finiti, scheletri di cemento, aree degradate. Altro impoverimento del paesaggio.

Il paesaggio non è la natura selvaggia e incontaminata. Il paesaggio rurale, come scrive Emilio Sereni in Storia del paesaggio agrario italiano, è «quella forma che l’uomo, nel corso ed ai fini delle sue attività produttive agricole, coscientemente e sistematicamente imprime al paesaggio naturale». Il paesaggio quindi cambia nella storia. Ma il punto è come cambia. Sotto quali spinte. E se in questo cambiamento riusciamo a non distruggere storie e memorie. Da decenni invece ci riusciamo, non curandocene, per poi riempirci la bocca di insopportabili slogan turistici sul “bel paese”.

I piani urbanistici comunali contengono ancora previsioni di espansioni e trasformazioni, spesso eredità del ciclo edilizio (cioè: bolla) pre-crisi 2007–08. Ed è stata proprio la crisi a far rallentare il consumo di suolo negli anni più recenti. Non è stata la politica ad arrestarlo, tantomeno la politica locale. Le amministrazioni comunali, strette tra patti di stabilità, tagli ai trasferimenti agli enti locali, bilanci sempre più malandati, hanno anzi continuato per anni a puntare sugli oneri di urbanizzazione come fonte di entrate aggiuntive. Di fatto, incentivando così il consumo di suolo (questa sì che è “antipolitica”, di quelle peggiori). Il risultato, comunque, è che il consumo di suolo è rallentato ma non si è fermato. E non si fermerà finché non ci sarà una legge che impedisca un consumo di nuovo suolo, che non serve ormai a soddisfare nessuna vera esigenza, né sociale né economica.

L’edificio che si vede nella foto di copertina è un’architettura rurale della seconda metà del ‘600. Si trova alla periferia orientale di Cerese, la frazione più grande di Borgo Virgilio, un comune alle porte di Mantova.

Corte Gobio in una “cartolina rurale”. Ma spostando lo sguardo alle spalle e a sinistra ci si accorgerà che l’area è oggi molto diversa da come appare in questa cornice

Un’epigrafe ricorda che il suo primo proprietario pernottò qui la prima volta il 23 settembre 1682.

Questa villa (una corte agricola in realtà, per la presenza di altri edifici rurali) non è solo un rilevante e interessante bene storico. È anche un luogo della memoria del ‘900. Tra il 1944 e il 1945 nazisti e brigate nere fasciste la occuparono, facendone un presidio di polizia, come accaduto presso altre corti agricole del territorio. Fu trasformata in luogo di prigionie, torture, esecuzioni. Alla fine della guerra vi si celebrarono i funerali di alcuni partigiani uccisi. Dal dopoguerra a oggi, dopo l’abbandono da parte dei proprietari, il complesso è stato lasciato degradare e non è stata progettata né (seriamente) proposta alcuna destinazione pubblica. Che può essere una sola: un luogo di cultura e memoria. Ma non solo è mancata qualsiasi tutela e valorizzazione della struttura. Non è stato nemmeno preservato il territorio agricolo circostante. Proposte per la creazione di un bosco urbano, nei pressi della corte, anche come limite definitivo all’urbanizzazione del vicino centro abitato, non hanno mai avuto seguito. Al contrario, come si può vedere, l’urbanizzazione si è spinta ormai a ridosso del complesso, con l’edificazione di edifici del tutto estranei al contesto rurale. L’area ora non è più classificabile né urbana né rurale. È una delle tante, caotiche, miste, zone di “campagna urbanizzata” del territorio. Uno dei tanti casi di fronte a cui l’espressione “pianificazione urbanistica” fa abbastanza sorridere. Del resto l’articolo 9 della Costituzione è lì per ornamento.

Non c’è nessuna effettiva pianificazione nella pluridecennale espansione di un centro abitato (circa 10mila abitanti, oggi, in un comune di quasi 15mila) come quello. Solo la progressiva occupazione di lotti di suolo agricolo. Una continua creazione di offerta abitativa, sotto la spinta della rendita immobiliare, che ha attirato nel corso dei decenni nuovi residenti. Mentre il vicino capoluogo perdeva abitanti e il suo centro storico si svuotava (ciò che è accaduto anche in altri comuni delle cinture periferiche, non solo di quella di Mantova). Il concetto di pianificazione dovrebbe rimandare a un’idea di programmazione e progettazione estesa nel tempo, oltreché nello spazio. Immaginando che direzione potrebbe prendere lo sviluppo futuro del territorio, come conseguenza di certe scelte.

Si assiste, invece, in tanti altri comuni, di molte altre province, alla continua avanzata di pieni e di vuoti. Dove i vuoti vengono a volte riempiti, a volte no, con tempi diversi. La sommatoria sconclusa di compravendite ed edificazioni di terreni. Questo è ciò che è accaduto, in tanti centri abitati della megalopoli padana (la definizione è del geografo Eugenio Turri) e non solo.

Questo non è un giudizio su questa o quella amministrazione, di questo o quel colore. È una riflessione amara su un fallimento collettivo. Su un interrogativo che dovrebbe far riflettere tutti: come immaginare una reale ed efficace transizione ecologica, senza una transizione politica?

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Antonio Scalari

Comunicatore della scienza. Qui pubblico riflessioni su argomenti vari.