La scienza avanza grazie alla curiosità, non al profitto

Antonio Scalari
5 min readNov 12, 2020

L’annuncio che la sperimentazione del vaccino Pfizer-BioNTech sembra aver dato risultati promettenti e superiori a quelli attesi ha suscitato grande entusiasmo. Questi risultati, va ricordato, si basano su dati ancora preliminari. Si tratta infatti, per il momento, di science by press release, cioè di dati diffusi attraverso un comunicato stampa. La sperimentazione del resto è ancora in corso e per la comunità scientifica sarà possile valutare questi risultati solo quando verrà pubblicato uno studio.

Al di là del vaccino Pfizer-BioNTech, il ruolo rilevante che l’industria privata riveste nella corsa allo sviluppo e alla produzione di vaccini contro la COVID-19 sarebbe la dimostrazione, per i seguaci del liberalismo più “antistatalista”, che l’interesse privato è in ultima analisi la molla del progresso scientifico.

Dalla pandemia «ci tirerà fuori il capitalismo» e la ricerca dedicata al profitto, sostiene addirittura qualcuno.

Affermazioni di questo tenore, diffuse tra diversi pro-free market, sembrano ormai somigliare più agli slogan del movimento Tea Party e a quelli di personaggi come l’attivista anti-tasse americano Grover Norquist («non voglio abolire il governo, voglio semplicemente ridurlo a dimensioni tali da poterlo affogare in una vasca da bagno») che alla visione politica di un medio liberalismo europeo.

Se ripercorriamo la storia delle scienze nel corso del ‘900 (scienze come la biologia molecolare, la virologia, la genetica, l’immunologia e molte altre) e dello sviluppo delle conoscenze che hanno poi permesso all’industria di produrre farmaci e vaccini (facendo anche profitti), scopriremo una storia di ricerca guidata molto più spesso dalla curiosità che dalla prospettiva di trarre profitti immediati. E finanziata molto spesso con risorse pubbliche.

A domande del genere «cos’è un virus?» (o «com’è fatta la struttura della materia?» e tante altre) gli esseri umani hanno cercato di rispondere mossi dall’interesse intellettuale o, al limite, dalla necessità di trovare soluzioni pratiche a qualche problema. Molto più raramente dalla prospettiva di un profitto, che almeno nell’immediato è difficile da realizzare.

Non è stato il profitto a spingere Galilei a puntare il cannocchiale verso il cielo, Newton e Leibniz a contribuire allo sviluppo del calcolo infinitesimale, Darwin a imbarcarsi sul brigantino Beagle e a immaginare quale fosse l’origine delle specie viventi, Curie a scoprire il radio e il polonio, Einstein a elaborare la teoria della relatività, Rosalind Franklin a indagare sulla struttura del DNA. Lo stesso si potrebbe dire di moltissime altre pietre miliari della storia della scienza.

È la curiosità che ci spinge a studiare la natura, ben al di là delle applicazioni immediate e dei guadagni che se ne potrebbero ricavare. Un’istituzione prestigiosa come l’Institute for Advanced Study è stata fondata proprio sulla base di questa visione.

La ricerca curiosity-driven, guidata dalla curiosità, è quella ricerca di base che molto spesso può fiorire solo grazie a investimenti nel lungo periodo (investimenti che in Italia sono scarsi, da molti anni). Ed è dalla ricerca di base che si sviluppano anche le applicazioni.

Non ci sono, ad esempio, ragioni legate al profitto o a interessi privati che giustifichino lo studio dell’ecologia delle zoonosi emergenti, per citare un campo della ricerca che pochi conoscono ma che è fondamentale per capire i meccanismi alla base dell’emergenza di virus come SARS-CoV-2. E che potrebbe quindi fornirci nozioni e strumenti anche per prevenire in futuro altre pandemie. Può essere una ricerca finanziata dallo Stato o da mecenati privati. Ma non è certo una ricerca dedicata al profitto. Semmai, alla conoscenza. È per questo che investiamo energie, tempo, risorse per capire come si originano le pandemie. Lo facciamo per capire qualcosa del pianeta su cui viviamo. Per comprendere come e perché si verificano disastri come quello che stiamo affrontando oggi.

Peraltro, il tentativo di dimostrare che il vaccino Pfizer-BioNTech è un prodotto il cui merito debba essere attribuito a un mercato e a un’industria privata completamente slegati dal ruolo dello Stato e del settore pubblico finisce per essere maldestro. E motivato più dall’esigenza di difendere una posizione ideologica, che dalla volontà di celebrare i successi della ricerca scientifica anche sui vaccini.

Se è vero infatti che l’americana Pfizer non ha beneficiato di fondi pubblici per lo sviluppo del vaccino, l’azienda partner BioNTech ha ricevuto 375 milioni di euro dal Ministero Federale per l’Istruzione e la Ricerca del governo tedesco e 100 milioni di euro dalla Banca Europea per gli Investimenti. E se oggi possiamo progettare un vaccino contro SARS-CoV-2 è grazie agli studi di diversi gruppi di ricerca, che hanno permesso di caratterizzare il virus, la sua struttura e il suo genoma.

Nulla che debba sorprendere. È ciò che succede anche nei paesi con “economia liberale”, a dispetto di quello che pensa qualche politico in Italia. Lo stesso settore pubblico, d’altra parte, ha contribuito direttamente alla ricerca farmacologica. L’azidotimidina (AZT), il primo farmaco per la cura dell’AIDS, è stato sviluppato presso il National Cancer Institute degli Stati Uniti.

Queste conquiste sono sempre il risultato di un accumulo di conoscenze che procede grazie alla spinta della curiosità e dell’esigenza (intellettuale o pratica) di trovare una risposta a una domanda.

A tirarci fuori da guai e da questa pandemia non sarà quindi l’ «odiato capitalismo», come scrive qualcuno. Un capitalismo che, odiato o meno, ha di sicuro bisogno di profondi riforme. A tirarci fuori dai guai sarà la scienza, la solidarietà, la cooperazione internazionale, la sanità pubblica, l’abnegazione e il sacrificio di tanti. Gli interessi privati esistono e possono essere legittimi ma, francamente, la magnificazione degli interessi privati e del profitto, perfino quando si parla di scienza, è proprio il contrario di quello di cui abbiamo bisogno in questo momento.

«Curiosità?» chiese il signor Eastman.

«Sì», risposi, «la curiosità, che può o non può sfociare in qualcosa di utile, è probabilmente la caratteristica speciale del pensiero moderno. Non è nuova. Risale a Galileo, Bacon e Sir Isaac Newton, e deve essere lasciata assolutamente libera. Le istituzioni educative dovrebbero essere dedicate alla coltivazione della curiosità e meno sono deviate da considerazioni sull’immediatezza delle applicazioni, più è probabile che contribuiscano non solo al benessere umano, ma all'altrettanto importante soddisfazione dell'interesse intellettuale che si può effettivamente dire essere diventata la passione dominante della vita intellettuale nei tempi moderni».

Abraham Flexner, L’utilità della conoscenza inutile.

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Written by Antonio Scalari

Comunicatore della scienza. Qui pubblico riflessioni su argomenti vari.