L’anno in cui capimmo che la crisi climatica è tutto

Antonio Scalari
3 min readApr 22, 2021

La fotografia riportata in copertina fu scattata nella vigilia di Natale del 1968 da William Anders, astronauta della missione Apollo 8. Per la prima volta, un equipaggio umano raggiungeva la Luna compiendo dieci orbite attorno al satellite per poi tornare sulla Terra. Per la prima volta, degli esseri umani potevano osservare a quella distanza il pianeta su cui la loro specie si era evoluta. Un viaggio durato 300mila anni, dopo la comparsa in Africa dei primi esemplari di Homo sapiens anatomicamente moderni.

L’originale venne orientato di circa 90 gradi in senso orario, producendo così l’immagine oggi nota come Earthrise: uno spicchio del nostro pianeta sembra sorgere dalla Luna, un po’ come ai nostri occhi si presenta il Sole all’alba. Oggi questo è uno degli scatti più celebri ed emblematici della storia, «la più influente fotografia ambientale mai scattata» secondo il fotografo Galen Rowell. La Terra appariva agli esseri umani bellissima, ma anche isolata e vulnerabile. Questa visione faceva riflettere sulla sua condizione e sul suo futuro. Dalle guerre sempre più devastanti all’emergente questione ambientale, l’umanità sembrava ormai di fronte a un bivio.

Earthrise diventò in breve tempo così riconoscibile da indurre molti a ritenere che la sua diffusione abbia contribuito alla nascita del movimento ambientalista. Due anni dopo, nel 1970, venne creata negli Stati Uniti la Environmental Protection Agency, l’agenzia federale per la protezione dell’ambiente. Nello stesso anno, il 22 aprile, fu celebrato il primo Earth Day, nato da una proposta del senatore democratico Gaylord Nelson. Lo scopo di questa iniziativa, secondo Nelson, «era quello di ottenere una dimostrazione nazionale di preoccupazione per l’ambiente così ampia da scuotere l’establishment politico dal suo letargo e, infine, fare in modo che tale questione entrasse in modo permanente nell’arena politica».

La 51° giornata della Terra si celebra nell’anno in cui la politica globale ha la responsabilità di decidere se vuole davvero fare tutto ciò che è necessario («whatever it takes»?) per centrare gli obiettivi dell’Accordo di Parigi sul riscaldamento globale.

In Primavera silenziosa la biologa Rachel Carson scrive:

«Questa è un’era di specialisti, ognuno dei quali vede il proprio problema ed è ignaro o intollerante della cornice più ampia in cui si inserisce».

È difficile immaginare una cornice più ampia di quella che racchiude la crisi climatica (e quella ambientale nel suo complesso). Come efficacemente titola la rivista Time, «il clima è tutto».

Per la scienza il «tutto» del clima significa un fenomeno che si manifesta attraverso numerosi e complessi effetti su gran parte del pianeta e che interessa diverse discipline scientifiche. Per i governi e i parlamenti il «tutto» del clima significa politiche industriali, economiche e fiscali, politiche sulla salute pubblica, sulla gestione delle città, sui trasporti, sulla gestione e la tutela del territorio, sull’agricoltura, sulla ricerca scientifica. Significa la transizione energetica più rapida (sarebbe potuta essere meno drammatica, se non si fosse perso molto, troppo tempo) e su più vasta scala che si possa immaginare. Significa una nuova politica.

Ma se la dimensione della cornice è un problema, nello stesso tempo presenta anche un’opportunità per l’azione: ogni decimo di grado di aumento della temperatura scongiurato è importante, ogni frazione di grado che ci allontana dagli scenari più catastrofici e dagli impatti più gravi conta. Ogni decisione che va in questa direzione conta. Perché questo accada dobbiamo capire che la crisi climatica è tutto. L’auspicio è che in futuro l’umanità possa pronunciare la frase contenuta nel titolo.

--

--

Antonio Scalari

Comunicatore della scienza. Qui pubblico riflessioni su argomenti vari.