Le armi spuntate del negazionismo climatico (nella sua fase orwelliana)

Antonio Scalari
6 min readAug 19, 2021

Da alcuni giorni, dopo la diffusione del nuovo rapporto dell’Intergovernmental Panel on Climate Change (IPCC), il quotidiano La Verità sta pubblicando interventi di Franco Battaglia, uno dei negazionisti climatici più attivi in Italia (docente di chimica fisica all’Università di Modena, pubblicazioni scientifiche sul clima: 0. Ha scritto più volte a riguardo anche su Il Giornale e sul blog del giornalista Nicola Porro).

Gli argomenti? I soliti.

Dalla metà del XIX secolo a oggi, dai tempi di Eunice Newton Foote, John Tyndall, Svante Arrhenius, la scienza del clima ha fatto molti passi in avanti. Ha aumentato le proprie conoscenze, le ha confermate o le ha riviste e ha raffinato i propri strumenti. Il negazionismo climatico no. E in questo sta anche il suo carattere di pseudoscienza.

Il primo articolo di Battaglia è dello scorso 11 agosto. Titolo lapidario: «Il global warming è un colossale falso storico». Eloquente la sintesi fatta dal giornale:

«I mutamenti climatici ci sono sempre stati. Negli anni ’70 del secolo scorso sembrava addirittura imminente l’era glaciale. Mille scienziati inviano una petizione asserendo che non esiste alcuna crisi. Ma il mondo politico e mediatico si fida di Greta Thunberg».

Una litania di affermazioni ripetute in modo ormai automatico.

Immaginate un dibattito in cui qualcuno, invece di sostenere un discorso che abbia almeno una qualche coerenza interna, si limitasse a scagliare dardi (assai spuntati in questo caso) per cercare di colpire l’interlocutore e metterlo in difficoltà (non bisogna sforzarsi, è quello che accade un po’ in tutti i talk-show televisivi).

Il mito dell’imminente era glaciale negli anni ’70 (il mito è che fosse la posizione prevalente nella comunità scientifica), gli scienziati (o più spesso presunti tali) dissidenti. Eccetera. Su come rispondere a questi argomenti avevo scritto su Valigia Blu.

Alcuni sono più futili e pretestuosi di altri: «il mondo politico e mediatico si fida di Greta Thunberg». Come se i rapporti dell’IPCC li scrivesse lei. Come se fosse lei l’autrice delle migliaia di studi a cui questi rapporti si riferiscono. Ma qui Greta Thunberg non indica una persona in carne ed ossa, ma un simbolo, quello dell’impegno civico contro la crisi climatica, odioso per chi si diverte a coniare termini come gretini.

La sostanza delle obiezioni si riduce comunque a il clima è sempre cambiato. Una constatazione che non ci dice nulla sull’attuale cambiamento climatico. Non ci dice come dobbiamo inquadrarlo nel contesto della storia della Terra e quali sono le sue cause e peculiarità. Non ci aiuta a capire se dobbiamo temerlo o no, se dobbiamo fare qualcosa o no. Pensate se alla prossima pandemia o al prossimo terremoto qualcuno reagisse proclamando che “le pandemie ci sono sempre state” o “i terremoti ci sono sempre stati”. Lasciando intendere, con questo, che non dovremmo preoccuparcene troppo.

In un articolo pubblicato su La Verità il 18 agosto, Battaglia lancia un altro dardo spuntato (oltre a generiche, non documentate e altrettanto trite denunce di imbrogli): il raffreddamento che si è verificato dopo la Seconda Guerra Mondiale.

La leggera diminuzione della temperatura globale nel dopoguerra sarebbe in contraddizione con l’attuale riscaldamento globale. La tattica è grossolana ma a suo modo efficace: isolare una finestra temporale — nel contesto di una tendenza che contiene certo fluttuazioni, brevi salite e discese, dovute a diversi fattori naturali, ma che andrebbe letta nel lungo periodo — e attribuirvi un significato distorto. È vero: c’è stato un leggero raffreddamento negli anni successivi alla Seconda Guerra Mondiale, fino ai primi anni ’70, ed è un fatto noto da tempo.

Come possiamo spiegarlo? Con almeno due fattori. Il primo è l’aumento della concentrazione di inquinanti atmosferici e aerosol in seguito alla ripresa post-bellica delle attività industriali. I composti che formano gli aerosol, come l’anidride solforosa — emessi anche da fonti naturali come i vulcani — riflettono la radiazione solare (un fenomeno noto come “global dimming”).

Queste sostanze, se presenti in sufficiente concentrazione nell’atmosfera, possono in parte “mascherare” una tendenza già in atto al riscaldamento o modificare, anche per un breve periodo, la temperatura del pianeta. È successo nel 1816, passato alla storia come “l’anno senza estate”. L’anno precedente si verificò l’eruzione del monte Tambora, in Indonesia, la più potente tra quelle conosciute in tempi storici. L’esplosione scagliò nel cielo, fino alla stratosfera, una quantità così imponente di materiale vulcanico, ceneri e aerosol, e a una tale altezza, che iniziò a circolare fino a raggiungere l’Europa e il Nord America. L’estate del 1816 fu inusualmente fredda, tra le più fredde che si ricordino. Le temperature anomale danneggiarono diverse colture agricole e i raccolti furono scarsi.

Quando si afferma che l’uomo non può modificare il clima del pianeta si ignora che può farlo (tanto quanto altri fattori naturali e attraverso gli stessi meccanismi e leggi fisiche, che sono altrettanto naturali) anche contribuendo a un suo piccolo raffreddamento, non solo a un suo riscaldamento. Tanto che si ritiene (può sembrare bizzarro) che la riduzione dell’inquinamento atmosferico, per le ragioni citate, possa perfino rafforzare il riscaldamento globale (ovviamente non è un buon motivo per non ridurlo).

Le leggi contro l’inquinamento atmosferico, approvate a partire dagli anni ’60 e ’70, dagli USA (il Clean Air Act) all’Europa, hanno contribuito a ridurre sensibilmente la concentrazione nell’aria di queste sostanze. Al contrario, le emissioni climalteranti di CO₂, dovute all’uso di combustibili fossili, non hanno mai smesso di crescere. Anzi, proprio in quel periodo si avviavano a un’impennata. E con esse, anche la temperatura globale. In 50 anni è stata emessa la gran parte delle emissioni di CO₂ prodotte dal 1750 a oggi. Il fatto che la temperatura globale sia leggermente diminuita nel dopoguerra, per altre ragioni, non ha alcuna conseguenza sulla nostra comprensione del riscaldamento più recente.

Per il raffreddamento, apparentemente più marcato, di circa 0.3°C, che si osserva negli anni immediatamente successivi alla guerra, c’è una seconda spiegazione, che ha a che vedere con un problema che riguarda la misurazione delle temperature. I grafici delle temperature globali combinano dati misurati a terra e in mare. La diminuzione delle temperature nell’immediato dopoguerra la si osserva soprattutto nei dati raccolti sugli oceani. Gli autori di uno studio pubblicato su Nature nel 2008 hanno chiarito l’origine di questa discrepanza.

Durante il conflitto l’80% delle registrazioni delle temperature a livello della superficie marina avvenne su navi americane. Al termine della guerra anche molte navi inglesi ripresero a svolgerle. Dal 1945 al 1949 solo il 30% delle rilevazioni venne effettuato da navi americane. Le imbarcazioni dei due paesi usavano due sistemi diversi. Mentre su quelle americane si misurava la temperatura dell’acqua marina convogliata nelle sale macchine, per il raffreddamento dei motori, i britannici la misuravano su campioni d’acqua raccolta in appositi secchi. Con questa tecnica succedeva di frequente che l’acqua facesse in tempo a raffreddarsi, anche solo di poco, prima che venisse registrato il valore.

In sintesi: questi dati raccolti nel dopoguerra sono viziati da un bias, cioè una distorsione statistica. Le temperature registrate sono più basse dei loro valori reali. È una spiegazione che può sembrare cervellotica e strana, ma la misurazione delle temperature non è un’operazione banale. Errori di questo tipo possono essere difficili da scovare e correggere. In ogni caso, oggi disponiamo di altre fonti di dati (boe marine, satelliti) e le ricostruzioni delle temperature, anche in tempi storici molto lontani attraverso diversi indicatori, si sono raffinate.

Ci si può chiedere: perché insistere nel rispondere oggi, di nuovo, a queste affermazioni negazioniste? Per due ragioni: per quanto triti, futili e confusi sono comunque argomenti che continueranno a fare presa (e a disinformare) presso un certo pubblico, che per ragioni ideologiche-culturali rimane incline a credere nella veridicità delle tesi del negazionismo climatico. Anche nella sua versione complottista. Correggerle può continuare ad essere un’occasione per informare il pubblico e tenere pulito l’ecosistema informativo.

La seconda ragione è che, sebbene il negazionismo più hard, conclamato, sia in ritirata, non lo sono la cultura e la mentalità che in questi decenni lo hanno prodotto, alimentato e diffuso. Da queste continuano — e continueranno — a originarsi manifestazioni di negazionismo più soft, argomenti più ingannevoli, più sottili e più difficili da riconoscere e smontare. Molti di coloro che hanno negato per anni il riscaldamento globale oggi ne riconoscono l’esistenza e le cause e ci spiegano come portare a termine la transizione energetica ed ecologica (con tutta calma magari. C’è tempo. La crisi climatica non è poi così grave, insinuano). Dovremo dunque continuare ad occuparcene.

L’industria dei combustibili fossili ha dovuto cercare di tenere il punto per decenni per difendere interessi materiali. Oggi, volente o nolente, sa che per sopravvivere dovrà cambiare. Il loro mondo è finito. Ma chi continua a stare da quella parte per ragioni ideologiche non deve nemmeno provarci.

Nota finale: il fatto che una testata che si chiama La Verità titoli che il riscaldamento globale è un falso storico conferisce, in questo caso, al negazionismo climatico anche una gustosa nota orwelliana-sarcastica.

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Antonio Scalari

Comunicatore della scienza. Qui pubblico riflessioni su argomenti vari.