Margaret Thatcher aveva capito la crisi climatica, i thatcheriani ancora no

Antonio Scalari
6 min readMar 3, 2021

«Il pericolo del riscaldamento globale è ancora invisibile, ma abbastanza reale da consentirci di fare cambiamenti e sacrifici, in modo da non vivere a spese delle generazioni future. La nostra capacità di unirci per fermare o limitare i danni all’ambiente del pianeta sarà forse la più grande prova di quanto possiamo agire come comunità mondiale. Nessuno dovrebbe sottovalutare l’immaginazione che sarà richiesta, né lo sforzo scientifico, né la cooperazione senza precedenti che dovremo dimostrare».

Di chi sono queste parole? Di uno scienziato? Di qualche attivista ambientalista? Sorprenderà molti, forse, scoprire che appartengono alla prima ministra britannica Margaret Thatcher. Le pronunciò il 6 novembre 1990, durante la seconda conferenza sul clima dell’ONU, poco prima delle sue dimissioni da capo del governo. Sorprenderà molti scoprirlo perché oggi la Lady di ferro non è certo ricordata, in genere, per le sue idee e le sue politiche sull’ambiente. Thatcher è oggi nota soprattutto per essere stata tra i protagonisti di un decennio, gli anni ’80, segnati dalla riscossa della destra, nel Regno Unito e negli Stati Uniti. Insieme a Ronald Reagan, presidente degli Stati Uniti negli stessi anni, Thatcher è un’icona del neoliberismo e della deregulation in campo economico (indipendentemente da quanto le politiche e le decisioni dei due leader abbiano effettivamente corrisposto a questa immagine).

Nel 1990 la scienza del clima aveva raggiunto una conclusione chiara: la temperatura del pianeta stava aumentando, i segni erano ormai palesi e la causa erano le emissioni di gas climalteranti dovute all’uso dei combustibili fossili. Un fenomeno che avrebbe comportato conseguenze e impatti potenzialmente sempre più gravi negli anni a venire. In quegli stessi anni, tuttavia, il clima era diventato anche un argomento di dibattito politico, non più solo scientifico. E proprio in quel periodo, negli Stati Uniti, prendeva piede l’offensiva negazionista climatica, partita dai think-tank di riferimento del conservatorismo americano e dall’industria dei combustibili fossili.

Sebbene il riscaldamento globale fosse una scoperta scientifica, e non un’invenzione delle organizzazioni verdi, gli allarmi sullo stato del clima diventarono, per molti conservatori, la bandiera di un nemico ideologico. Così, nel decennio successivo, dopo la caduta del muro di Berlino, l’ambientalismo diventò una nuova bestia nera per la destra. Come socialisti e comunisti, anche gli ambientalisti infatti sarebbero rappresentanti di un’ideologia che minaccia la crescita, lo sviluppo, la prosperità.

Eppure, già nel 1988, intervenendo alla Royal Society, Thatcher parlò del riscaldamento globale e delle sue conseguenze:

«Un tale riscaldamento potrebbe causare una fusione accelerata dei ghiacci e un conseguente aumento del livello del mare di diversi metri nel prossimo secolo».

Possono sembrare previsioni catastrofiste, come dire oggi qualcuno, ma si tratta di scenari che si basavano sulla peggiore delle ipotesi possibili, cioè che non si facesse nulla per contrastare il riscaldamento globale. Anche se il rischio di un innalzamento del livello dei mari così estremo è molto probabilmente oggi scongiurato, lo stato dei ghiacci del pianeta appare più che mai preoccupante, così come il suo possibile impatto su mari e oceani.

La fusione dei ghiacci e l’espansione termica causata dall’aumento della temperatura dell’acqua sono i principali fattori alla base dell’innalzamento del livello di mari e oceani. Dalla fine del XIX secolo a oggi il livello è aumentato di più di 20 centimetri. Come per molti altri impatti del riscaldamento globale, anche in questo caso il futuro non è già scritto ma è un effetto della piega che prenderanno le emissioni di gas climalteranti. Le stime indicano che anche in uno scenario di basse emissioni da qui alla fine del secolo, il livello dovrebbe aumentare di altri 30–60 centimetri circa. E, di nuovo, come per tutti gli altri effetti del cambiamento climatico, anche mezzo grado in più potrebbe fare una rilevante differenza. Sono centinaia di milioni le persone potenzialmente minacciate in tutto il mondo dall’innalzamento di livelli dei mari in molte aree costiere densamente abitate dal pianeta.

I timori espressi da Margaret Thatcher sul futuro del clima si basavano sulla migliore scienza disponibile all’epoca. La realtà del riscaldamento globale, per come la osserviamo dopo tre decenni, li conferma. Nel 1990, parlando all’inaugurazione dell’Hadley Center, uno dei principali centri di ricerca britannici sul clima, e commentando il primo rapporto dell’Intergovernmental Panel on Climate Change (istituito due anni prma), Thatcher ribadì le sue posizioni:

«Le attività dell’uomo stanno già aggiungendo gas serra alla Terra a un ritmo senza precedenti, con inevitabili conseguenze per il nostro clima futuro».

Nei suoi interventi sul clima e l’ambiente la leader conservatrice dimostrava una lucida comprensione delle basi scientifiche di questi temi. In questo era probabilmente aiutata dalla sua formazione scientifica (aveva studiato chimica all’università). Ma oggi questa visione lungimirante e pragmatica si fatica a ritrovarla nella gran parte degli esponenti politici, nonostante l’aumento delle conoscenze e della consapevolezza del problema. «Avremo bisogno di rara capacità di governo», disse Thatcher riferendosi alle azioni necessarie per arrestare il riscaldamento globale. Una capacità di governo che, oggi possiamo dirlo, è in gran parte mancata a livello mondiale.

Bisogna ricordare che dopo le sue dimissioni, negli anni successivi, Thatcher fece affermazioni un po’ più tiepide e “caute” sul riscaldamento globale, di quelle espresse da prima ministra. Criticò l’allarmismo sulla questione, avvicinandosi in parte alle posizioni prevalenti nel mondo conservatore. Va però osservato che, nel frattempo, il clima era diventato un tema più politicizzato e polarizzato di quanto fosse negli anni ’80. Le posizioni etichettate come allarmiste (che in realtà riflettevano il consenso scientifico) erano ora attaccate come idee di avversari politici ed espressione di una mentalità ostile allo sviluppo. Il problema era quindi ormai ideologico, non scientifico.

Ma l’evoluzione delle posizioni di Thatcher sul clima è anche la dimostrazione che quando una questione scientifica non è ancora troppo politicizzata, può essere più facilmente affontata con un approccio evidence-based, pragmatico, al di là delle implicazioni ideologiche che potrebbe comportare. Del resto, il pensiero politico di cui è ancora oggi espressione Thatcher si colloca in un rapporto di contraddizione nei confronti delle posizioni che la statista sosteneva alla fine degli anni ’80 sull’ambiente.

Il sostegno incondizionato al libero mercato e l‘avversione di principio nei confronti delle regolamentazioni sono obiettivamente in contrasto con la necessità di fermare il riscaldamento globale. Si tratta infatti di un obiettivo che richiede una stretta regolamentazione delle emissioni climalteranti e politiche attive per orientare la società verso l’abbandono delle fonti fossili. Cioè, un intervento pubblico in economia che non richiede necessariamente piani quinquennali in stile sovietico, ma che è sufficiente per risultare indigesto e inaccettabile agli occhi di una visione “antistatalista” e fondamentalista del libero mercato. È a partire da questa premessa ideologica (unita agli interessi del settore dei combustibili fossili) che il Partito repubblicano e il mondo conservatore negli Stati Uniti hanno abbracciato in modo così aggressivo il negazionismo climatico.

Anche in Italia c’è chi venera Margaret Thatcher come paladina di un liberalismo intransigente, contro le ingerenze dello Stato in economia e nelle libertà individuali. Quasi nessuno dei suoi fan la ricorda, rivendicandone l’eredità, per i suoi interventi sul riscaldamento globale e i suoi moniti sul futuro dell’ambiente del pianeta. Diverse realtà liberali in Italia (come l’Istituto Bruno Leoni, la Fondazione Luigi Einaudi, l’associazione Lodi Liberale, quotidiani come Il Foglio) si rivelano, anzi, terreno fertile per convinzioni negazioniste e antiscientifiche sul cambiamento climatico; per pregiudizi e argomenti che tendono a minimizzare le sue conseguenze e quelle di altri problemi ambientali; per “dubbi” riguardo alle nostre conoscenze sul clima (dubbi dello stesso tenore di quelli alimentati ad arte dai negazionisti negli Stati Uniti). Non è un caso: si tratta di un liberalismo classico, culturalmente affine al mondo conservatore e libertarian americano.

Chi ha sostenuto per anni (o continua a farlo oggi) tesi negazioniste sul riscaldamento globale oggi indirizza banalità paternalistiche nei confronti di Greta Thunberg (un’ossessione per molti negazionisti, che assume non di rado tinte complottiste), spesso malamente mescolate a minimizzazioni e argomenti scorretti sul clima. Il problema, almeno in molti casi, origina dall’ideologia e non dalla mancanza di comprensione della scienza. Ma dal momento che, come si sa, gli ideologismi da condannare sono sempre quelli altrui, molti thatcheriani del XXI secolo preferiscono invocare un ambientalismo non ideologico, piuttosto che rivedere, essi stessi per primi, certi pregiudizi e certe premesse. Forse i thatcheriani contemporanei avrebbero dato dell’allarmista ideologica anche a Margaret Thatcher, se l’avessero ascoltata nel 1990.

Se Greta Thunberg sta loro antipatica, potrebbero riprendere in mano i discorsi nei quali la conservatrice e liberista Margaret Thatcher ammoniva contro il pericolo del riscaldamento globale, già più di 30 anni fa, dimostrando di comprendere le conseguenze di quella che oggi chiamiamo “crisi climatica” e la necessità di intervenire per risolverla.

Un esempio che dovrebbe far riflettere tutti (a partire da coloro che si richiamano alla sua eredità) sulla relazione, spesso difficile, tra la scienza, la politica e le nostre visioni del mondo.

Immagine di copertina: via YouTube.

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Antonio Scalari

Comunicatore della scienza. Qui pubblico riflessioni su argomenti vari.